Le mani sulla Roccia


Sapete com'è, nei sogni: si parte da un particolare reale, da un volto, da una situazione, da un paesaggio, da qualsiasi cosa conosciuta o accaduta e da, lì, il sogno comincia e si snoda come un film, con risvolti comici o drammatici, di fantascienza o dell'orrore, talvolta mischiandoli addirittura tutti insieme. Bene, questa è, in pratica, la storia di un sogno, ma ha una premessa reale e concreta: io, per via del mio lavoro quasi sempre notturno, e, quindi di una vita un po' diversa da quella dei miei compagni, avevo cominciato piuttosto tardi ad arrampicare. Mi ero preoccupato professionalmente di Andrea Oggioni e di Josve Aiazzi, eravamo diventati amici, e finalmente mi avevano convinto a seguirli in Grigna: Camino Mosca, Spigolo del Nibbio, Torrione Fiorelli, i tre Magnaghi, e poi l'Angelina, il Sigaro, il Lancia, il Fungo e il resto. Lì e altrove, con loro e con altri.

Ma il sogno di cui vi parlo appartiene al primo periodo della mia scoperta di quel modo nuovo ed esaltante di andare in montagna: quello che si fa con "le mani sulla roccia". Si sa che tutti gli apprendisti, almeno nei primi tempi di una nuova esperienza, si scatenano, non pensano ad altro, diventano monomaniaci. Così ero io, in quel periodo. Se non ero in Grigna, ero in Val Brembana dove i miei avevano una casetta per le vacanze e naturalmente, ora, guardavo le Orobie, che conoscevo fin da quando ero piccolissimo, con occhi del tutto nuovi. Guardavo i roccioni, le paretine, le creste e le guglie tracciando, con il pensiero e la fantasia, vie di salita e traversate anche se sapevo benissimo che la roccia, in zona, è friabile, non molto affidabile per i chiodi e, nell'insieme, piuttosto "sporca", il che vuol dire erbacce, cespuglietti rachitici, ghiaietto, terriccio. Non avevo un progetto preciso, ma continuavo a cullare la speranza che, un giorno o l'altro, qualcosa mi sarebbe scattato dentro e mi sarei messo, anche lì, "in parete".

Ed eccomi, una notte, tranquillamente nella casa di Piazzolo il sogno comincia: da principio, non so come, volavo su tutta l'alta Valle Brembana. Risalivo il Grembo verso monte, sorvolavo Olmo al Brembo, Piazzolo sulla destra, Cigadola sulla sinistra, Piazzatorre, Sparavera, Mezzoldo. Ora, non volavo più, ero in una valletta che conoscevo bene e si restringe e s'impenna, diventando un canalone, tra il Monte Cavallo e il Pegherolo. La salita era sempre più ripida, ghiaia e massi sovrastavano da ogni parte, ma io continuavo a salire. Non era un'arrampicata vera e propria, ma piuttosto una fatica di Sisifo: due passi avanti e uno indietro, accompagnato dall'acciottolio di tutto il "gerone".

Da quelle parti c'ero stato altre volte in cerca di stelle alpine e ce n'erano molte. E' un posto, ancora adesso, bellissimo, solitario e così lavorato dal tempo da dare un'impressione di eternità. Ma nel sogno, il paesaggio si trasformava: i pendii, per quanto già ripidi, si drizzavano ancora di più, diventavano verticali, erano vere pareti. Finalmente si poteva arrampicare! Ed eccomi, con le mani sulla roccia. Sapevo, non so come, che sarei salito facilmente, come portato dal vento per molti metri, ma che, prima o poi, avrei incontrato quello che chiamavano il passaggio chiave. Tuttavia sentivo uno strano senso di fiducia, simile ad una intuizione: avrei vinto il passaggio a costo di starci sette ore, come Cassin aveva già fatto in Lavaredo, per piantare un solo chiodo, uno di quei chiodi decisivi che, mentre penetrano nella fessura, entrano anche nella storia dell'alpinismo. Ma ecco che il sogno frantuma la mia fiducia: mi vedo "impastato" contro un lieve strapiombo. Non c'erano appigli, non c'erano fessure, non un buco, soltanto una fenditura che partiva qualche metro sotto, sulla sinistra, e tagliava diagonalmente la parete verso l'alto. Vicina, ma irraggiungibile. A destra, invece, due metri più in alto, c'era un minuscolo terrazzino che poi si allungava in una cengetta erbosa che finiva fuori parete, su ripidissimi prati secchi.

Ero troppo stanco per pensare. Dovevo raggiungere il terrazzino e lì, dopo essermi riposato, con la tranquillità psicologica che mi dava la possibile e facile uscita dalla parete avrei deciso cosa fare: rinunciare o tentare la cima? Avevo un dolore insopportabile tra le spalle, e la mano sinistra lasciava una traccia di sangue sulla roccia. Ero in bilico su una mano e su un piede solo, ma ormai, a non più di cinquanta centimetri sopra la mia testa, c'era il terrazzino con i suoi ciuffi d'erba lunga e dura che spiovevano sull'orlo. Ebbi la sensazione di scomporre il tempo: vidi il mio braccio allungarsi, allungarsi con la mano ad artiglio, pronta ad afferrare erba e roccia e, nello stesso tempo, vidi la vipera. La volontà non giunse in tempo che fermare il braccio, ma l'istinto fu più rapido e mi fece aprire la mano che teneva l'appiglio. Quando le dita sfiorarono il rettile ero già nel vuoto. Davanti ai miei occhi sbarrati, la parete e il cielo parvero rovesciarsi, in posizioni assurde. Poi, lo strappo della corda, la roccia che mi veniva incontro. Gambe e braccia tese in avanti, oscillazioni a pendolo, ed eccomi incastrato nella fessura obliqua. Tremavo per il terrore folle di avere la vipera attaccata per i denti alla manica della camicia. Mi sembrava che il braccio destro fosse più pesante, ma non avrei mai trovato il coraggio per guardarlo. Mi sembrava più facile e più sensato stendere il braccio in fuori, sul vuoto, all'altezza dei miei occhi immobili. Non c'era niente, ma il braccio era davvero appesantito e irrigidito. Mi riprese la paura: forse ero stato morsicato. Come potevo saperlo? Due puntini! Due puntini!, il morso della vipera lascia il segno dei due denti del veleno. Me lo ripetevo freneticamente e li cercavo sulla mano, ma non era possibile: era tutto un taglio, un graffio, un dolore.

Io non so che relazione ci sia fra i tempi dei sogni e quello che vi accade. Certo è che, nel sogno, passarono ore prima che mi convincessi che nulla era accaduto e, allora, con la baldanza e la felicità un po' ebbra dei redivivi, mi calai giù dalla fessura e mi vidi, per l'ultima volta nel sogno, mentre arrotolavo corda e cordini e scendevo a valle, fischiettando. Era stato un sogno, non un incubo e, quindi, il risveglio fu normale, ma con una sensazione strana: non ero ancora desto del tutto che già sapevo  come, in giornata, sarei ritornato davvero lassù. Sentivo che se non l'avessi fatto subito, forse non sarei mai più andato in montagna e, tantomeno, ad arrampicare. Ci tornai e fu una giornata bellissima. Ero tranquillo e sicuro, e quel canalone, malgrado la friabilità e le scaglie di roccia quasi bianca che risuonavano, urtandosi, con tintinii simili ai pezzi di vetro dei bottiglioni, sembrava immutabile dall'inizio del tempo.

Certo - mi dicevo - in montana c'è la fatica, ci sono pericoli, ci possono essere anche le vipere, ma quello era il mio mondo – Prealpi Orobiche o Grigna che fosse – e ci sarei sempre ritornato. Anzi, il prossimo fine settimana sarei andato ad arrampicare davvero con Andrea e Josve. Tornai al tramonto con un bel mazzo di stelle alpine. Mi pare che, allora, non ci fossero – come è giustissimo che ci siano – norme severe per la difesa della natura, della fauna e della flora. O, perlomeno, io non le conoscevo e, comunque, dato che da allora sono passati più di quarantacinque anni, penso di poter tranquillamente confessare il mio "reato": è sicuramente caduto in prescrizione.


Carlo Graffigna.

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