E per fortuna la Guerra era finita in Valle Brembana (1^ parte)
Giupponi Giuseppe (Fuì)

Scorreva la metà di maggio del 1945. La guerra era finita da poco. Il Fuì (nomignolo che vale per faina) aveva promesso ad alcuni amici di condurli a visitare la zona dell'Alben in Valle Taleggio, dove aveva trascorso una quindicina di giorni con i partigiani di Paganoni e di Vitalino, prima della Liberazione. Quando propose di partire, i suoi compagni mordevano la felicità di visitare in modo diretto questi posti che il racconto serrato e realistico del Fuì aveva elevati a mito nei loro cuori. Lui aveva compiuto i quindici anni da qualche mese. Il gruppo degli amici era lì attorno: giusto il Capelli aveva diciotto anni, mentre il Vanni ne contava solo dieci. Nel mezzo il Geo, il Morali, il Medolago, il Barola e il Nani.

Il Vanni e il Medolago erano forestieri, o meglio sfollati, entrambi di famiglia benestante. Il secondo, molto intelligente, era un ottimo giocatore di calcio; il primo, era un milanese anche lui molto ricco per via del padre che commerciava nel formaggio. Aveva la manìa di parlare alla svelta, ma spesso balbettava. Gli altri erano cresciuti alla bell'e meglio tra la cucina della famiglia e la piazza del paese, sempre affamati e squattrinati. Il Morali, che tutti chiamavano Patata per via che era un poco grasso, ci badava a tenersi su ed era sempre vestito il meglio possibile. Il Barola era un introverso della malora, ma anche il più spiritoso, a dirla breve, un testone simpatico. Non spendeva mai un centesimo, però dal suo borsellino più volte uscì quello che occorreva per rimediare a situazioni scabrose dell'economia di gruppo. Si erano trovati lunedì sera al bar del Mariani, con quattro gassose e un litro di barbera, e si misero d'accordo.

Sarebbero partiti giovedì mattina alle cinque e avrebbero fatto ritorno sabato sera: tre giorni e due notti. Bisognava quindi che portassero l'occorrente e qualcosa da mangiare. "Per il cibo facciamo alla svelta" fece il Nani, uno che aveva una strana opinione dell'altrui proprietà. "Le vecchie milanesi tengono vicino alla villa un pollaio pieno di galline. Sarà una cosa facile!". E si fece alla svelta. Ci andarono il Nani più il Fuì, il Geo e il Barola, quest'ultimo con il compito di far da palo, fischiettando una strofetta di "Lili Marlen" qualora ce ne fosse stato bisogno.Torsero per bene il collo a quattro gallinelle, biondastre di terriccio. Il Geo fece oltre, tanto che rimase in mano un pezzo di collo con la testa della povera gallina a penzoloni. E cominciò a ridere come un matto. Né ce la faceva a smettere. Finchè da una finestra del secondo piano, che s'era illuminata, si sporse una delle vecchie.


Cantiglio ai piedi del Cancervo (Foto di G. Gritti)


Siccome non capiva bene cosa stesse succedendo, anche se laggiù intravedeva qualcosa che si muoveva e sentiva più di uno schiamazzo, gridò l'allarme con la voce roca e urlò un mucchio di parolacce. Ma i quattro erano filati via come furetti, anneriti dall'oscuramento. Le galline le mise su a spennare e a bollire il Morali, aiutato dalla mamma che continuava a chiedersi dove gli amici di suo figlio avevano rimediato i soldi per comperarle. E lui la tranquillizzava, ricordandole che il Vanni e il Medolago erano molto ricchi, "perciò!…" Giovedì, di mattino presto, in piazza c'erano tutti. Meno il Nani. "I vecchi a faticare in fucina per tutta la giornata, e lui, il bello, a girare le montagne. Lazzarone!" gli aveva urlato il padre mostrandogli il martello. Il Vanni, con tanto di braghette strette alla cacciatora, era accompagnato dalla mamma, una donna alta, bionda e piacevole. Lo lisciava tutto e continuava a fargli raccomandazioni. Il ragazzo aveva addosso uno zaino strapieno di indumenti e di cibo. Il Fuì giunse da basso fischiando e vestito, se non con gli scarponi, come se dovesse giocarsi una partita di pallone. Spallata, portava una giubba da partigiano. Le gambe, ben muscolate, tradivano la presenza di innumerevoli piccolissime ferite provocate da uno scoppio di bomba a mano. Il Medolago aveva sulle spalle uno zaino tipo militare, zeppo di roba, con una coperta e un pentolone penzolante. Aveva portato con sé la cagna Diana che gli stava dietro saltellando. Li annusò forse per conoscerli meglio, uno per uno, poi si mise ad abbaiare. Ma smise quando il Barola le gridò: "Piantala, che mi fai diventare sordo". Si misero in cammino alle cinque e mezza, salutata dal Mario, fratello maggiore del Fuì, in procinto di partire per Bergamo con la moto Guzzi militare in dotazione, dove faceva parte dell'ufficio requisizione della polizia partigiana. Camminavano ora in fila indiana, ora in crocchio, con il Fuì che faceva da dicitore: "Questa è la casa del Plevani dove abbiamo mangiato le oche del podestà". "Quello è il sentiero che dalla seconda centrale, sale a perdifiato fino a Cantiglio". "Questo è il ponte della terza centrale, dove sono stati fucilati il Rino e il Manzoni. Quell'altro che vedete lassù, è il ponte del Becco, ex posto di blocco dei partigiani".

Così tra una spiegazione e l'altra, i ragazzi, si fecero l'Orrido, superarono il ponte del Becco e giunsero a Sottochiesa nella piazzetta dove era scoppiata la bomba a mano che aveva ferito il Fuì e, più gravemente, il Rosso di Roncobello. "Una brutta storia: avevo una gamba tutta piena di schegge, piccole è vero, ma fitte!" raccontava il partigiano, come se parlasse a se stesso, additando l'arto ferito. Poi via lungo la mulattiera di Pizzino, dove sostarono dal Bianco, una trattoria che era stata saccheggiata e bruciata l'anno prima dai tedeschi. E qui a tutti venne voglia di far colazione. Il paese appariva vuoto. Non c'era in giro persona alcuna, neanche laggiù sul sagrato della chiesa. Nemmeno c'era il Vitalino, che aveva loro assicurato la sua presenza. Il Barola in piedi si guardava attorno e parlava a sé solo: "Quello è il Cancervo, una massa poderosa e uniforme. Più su il Venturosa con il Passo di Baciamorti. Giù in fondo, di là dell'orrido, il Sornadello" su cui invano cercò di vedere la croce. "Lì davanti il Corno Zuccone, che sale forando il cielo. Dietro i Piani di Artavaggio con il rifugio Castelli, e ad ovest, sopra Peghera, la Corna Bianca. Alle spalle i Piani dell'Alben con il Monte Sodadura. Oltre, nel fondo, l'alta Valle Brembana e la Val Stabina con Cassiglio e Valtorta". Le donne del Bianco, dentro, chiacchieravano da sole. Lui non c'era.

Il Vanni comperò un paio di fiaschi di vino, il Capelli, un paio di chili di farina da polenta e qualche panino. Poi cominciarono la salita. Arrivati a Monteruccio lasciarono la mulattiera, inerpicandosi a percorso libero. Fu una faticaccia che specie il Morali e il Barola bestemmiarono con solennità. Durò quasi un'ora. Poi, finalmente, ecco le prime due baite. Il Geo, stanco, disse ad alta voce: "Io mi riposo un po'" e si acculacciò su uno dei tre gradini del fienile. Il portone era mezzo aperto e lui, sbirciandoci dentro, vide che c'erano degli attrezzi da mandriano e da cucina. "Questi ci vanno a meraviglia" pensò e scelse una pentola e un misurino del latte e li mise nello zaino. Più in là incrociarono due bergamine che uscivano da un boschetto col "bazol" carico di latte sulle spalle. Erano bellocce ed abbastanza giovani.
Il tenente Granata fra Mario Giupponi e Franco Carrara della Polizia partigiana di Bergamo.

E il Capelli gridò loro "Ciao bèle!". Le due giovani salutarono con la mano sorridendo. Il Fuì le aveva guardate con attenzione perché pensava di conoscerle, ma no, non le aveva mai viste. Da sotto, oltre il bosco, arrivava il sonante scampanìo delle vacche al pascolo. Era una bella giornata. Il sole schiariva là dal Cancervo e la gioia dei ragazzi vinceva la fatica. "Mamma mia, cosa c'è là!" gridò il Vanni, facendo cenno con la mano. Era una martora che sentellinava sul fondo del prato. La Diana, drizzate le orecchie, la fissò, la puntò e lesta partì, ma quando fu sul ciglio, la martora, si era bellemente imbucata al sicuro. "Da qui al rifugio Alben, ora ci separa un gran pianoro" fece il Fuì al Medolago ed al Geo, i due che gli erano appena dietro, "E' lassù e fra poco incominceremo a vederne il tetto". "Bello" fece il primo. "Bene" esclamò l'altro. Passarono davanti ad alcune baite, le più chiuse, tutte vuote. "Venite su, di qua, noi siamo arrivati" gridò il Barola, che sventolava assieme al Vanni, con le mani alzate, un fazzoletto, rivolgendosi verso i compagni, fermi a curiosare attorno ad una pozza d'acqua, piena di girini e di piccoli insetti che zigzagavano freneticamente e di erbe un po' gialle ed un po' verdi. Nel contempo la Diana se l'era presa con un grosso rospo, che soffiava e spumeggiava. Tentava con la destra di zampettarlo, ma la paura la trattenne e lo sfiorò appena.

Il rospo stette lì, quasi se ne disinteressasse, poi di botto, saltò e si tuffò nell'acqua, scomparendovi. Rantolò la cagna un paio di "bau bau" ai quali rispose il padrone con un affettuoso: "Buona Diana". Alle dieci e qualcosa, i sette erano davanti al rifugio. "Eccolo" fece il Fuì. "Peccato sia chiuso. Qui ci sono stato per quasi un mese". "Ci racconti qualche ricordo?" gli domandò il Medolago. Lui pensò un attimo e rispose: "La paura di notte quando ero di guardia e facevo il giro attorno. Che fifa avevo ragazzi!". Continuando il giovane partigiano raccontò la pseudo-cerimonia del 21 aprile, nascita di Roma, "con Mussolini che parlava da "quel balconcino" come fosse a palazzo Venezia; e noi qui sotto a marciare armati cantando Battaglioni del Duce… Come mi ero divertito!". Poi ricordò il lancio aereo che avvenne una notte di marzo nella zona del Baciamorti. "Una montagna di armi, cibo e vestiario. Una vera manna. Una gran festa, anche se io finii con un cattivo mal di pancia e ricorrenti vampate di vomito per aver ingerito troppo cioccolato". "Dove avete sotterrato la spia che avevate fucilato?" chiese il Geo e il Fuì lo accompagnò con gli altri, presso un piccolo dosso. C'era ancora la terra smossa. "E' lì sotto". Tutti ascoltavano, zitti, la brutta fine della spia. Il Barola, senza accorgersi, si tolse il berretto. Il silenzio fu rotto dal Capelli che propose di trovare una baita dove passarci la notte. Alla fine decisero di accantonarsi nella baita del Tone Barba, 200 metri circa più basso. Ci andarono. "Un bel posto" pensò il Medolago ad alta voce. Era una caratteristica costruzione a baita col tetto spiovente, di una ventina di metri, divisa fra una stalla e uno stanzone. Di fianco alla porta s'apriva una finestra a rettangolo rovesciato senza infissi. Dietro c'era il fienile; davanti un ampio spiazzo con in mezzo un grosso faggio. Dentro c'era il focolare, un tavolone e basta. Di fuori, una banchetta di cemento, appoggiata alla parete della baita. Vi si sedettero. Il Capelli, distribuiva i compiti di ciascuno al fine della preparazione del rancio. Il Morali e il Barola, nominati cuochi sul campo, si misero di buon animo al lavoro e, per mezzogiorno e mezzo, prepararono una fumante pastasciutta cotta in un pentolone retto da una fune agganciata ad un ramo del faggio.

I due avevano anche spennacchiato un paio di galline che, serbandole per la sera, avevano attaccato a sgocciolare ad un chiodo della finestra. Fu un buon pranzo. Il tutto annaffiato da un paio di fiaschietti di vino del Vanni: vino veramente speciale. Al rancio fece seguito un'oretta di massima libertà. Ciascuno poteva fare ciò che voleva: preparare la "cuccia" per la notte, sdraiarsi a prendere il sole, gironzolare, cantare, rincorrere la cagna, cacciare i rospi o pensare alla morosa. Nel pomeriggio i ragazzi organizzarono due escursioni: una al Passo di Baciamorti e l'altra ai Piani di Artavaggio e al rifugio Castelli, bruciato dai repubblichini durante il rastrellamento di ottobre. Al Capelli, che aveva scelto il passo, si aggregarono il Medolago ed il Vanni speranzosi di trovare delle armi o dell'altro materiale militare spersosi nei canaloni stracolmi di neve in occasione dell'avio-lancio ai partigiani. Il Fuì andò con gli altri al Castelli: una faticaccia ripagata da un'interessante visitazione ai mitici posti della resistenza taleggina. Alla baita era rimasto solo il Barola. Canticchiava e intanto ripuliva le pentole, piatti e posate. Poi mise su a cuocere una polenta che in parte mischiò col latte. Quindi una dozzina di cotechini mezzo bolliti e mezzo arrostiti. Fece fatica, raccontò poi agli amici, a trovare il latte poiché quelle quattro mandriane che era riuscito a scovare, gliparvero poco predisposte a vendergliene. Nemmeno avevano voglia di parlargli. Il rientro dei due gruppetti coincise con il tramonto, quasi rosato e a raggiera, che stagliava da dietro il Resegone.

Cenarono seduti chi qua, chi là. Il Capelli era particolarmente ciarliero perché al Baciamorti aveva rinvenuto una pistola tipo Beretta, un poco arrugginita e con il caricatore ingessato. "Fa niente, so come metterla a posto; è il mestiere di mio papà e qualcosa ci capisco anch'io" assicurò il Geo sorridendo. Il Fuì non volle saper balle e gliela fece nascondere. Il Vanni raccontò che durante il ritorno avevano incrociato due bergamini che, accortisi della pistola, parlottarono qualcosa fra loro e se la filarono senza salutare, quasi fossero stati colti da un improvviso senso di paura o di astio. "Chissà perché?" s'era chiesto il ragazzo. Il Geo a sua volta accennò al fatto che presso il rifugio Alben aveva udito discorrere un mandriano con una bergamina "Notai che si riferivano a noi". Il mandriano esclamò, facendosi ben capire: "Ora ci sono gli altri. Qui non finisce mai!". "Suvvia" lo interruppe il Medolago: Non pensoi che la gente di quasssù ce l'abbia con noi. Difatti stamane il Barba ha acconsentito che usassimo la sua baita come rifugio". Il discorso fu troncato dall'arrivo di due amici di San Giovanni Bianco , i fratelli Raffaele e Beppino Burla, che sapendo della nostra gita, dopo aver acquistato una mezza dozzina di stracchini, erano saliti a farci visita. Un incontro che in paese sarebbe risultato del tutto normale, lassù in montagna apparve ai ragazzi un fatto straordinariamente umano, per cui fecero un po' di festa, brindando più del solito. Prima di ripartire, sul fare del buio, il Raffaele raccomandò un po' di prudenza per il fatto che il malgaro, che gli aveva venduto gli stracchini, gli aveva accennato alla presenza in zona di una banda di ex brigatisti neri. Poi con l'oscurità arrivò la notte, con la luna che brillava a metà






Ambiente naturale orobie le Orobie Occidentali della provincia di Bergamo.
Gli Alpini in alta Valle Brembana dopo il primo conflitto mondiale del 1915-18 gli Alpini dell'alta Valle Brembana.
Una giornata da cascio in alpeggio correva l'anno 1953, i nostri alpeggi in alta Valle Brembana.
Acqua prezioso dono delle nostre Montagne specchi d'acqua quelli naturali residui di antichissimi ghiacciai.
Usi e costumi. Enda Soenda pista dove si fanno scorrere piante di alto fusto scortecciate.
Pietre che parlano antica cultura litica dell'Area alpina con particolare riferimento alle Valli Bergamasche.
Personaggi illustri alla Cantoniera San Marco uno di questi è stato Angelo Giuseppe card. Roncalli.
Dientà Foréstér emigrare: diventar forestieri due volte in un solo atto.
Il Fiume Brembo a differenza però del Serio, il Brembo fuori della sua valle attraversa un tratto più breve di pianura bergamasca.
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Dominique Vivant Denon agli inizi di novembre del 1793, Dominique Vivant Denon, un intellettuale francese.
Il Monte Ponteranica e i suoi laghetti quante volte ci siamo chiesti il perché del Monte Ponteranica attribuito ai due suggestivi Laghetti.
La storia della Valle Brembana il primo fu Antonio Baroni, la celebre guida di Sussia.
Via Mercatorum il Turismo è ambiente, cultura, scoperta e curiosità: le montagne della Valle Brembana.
Monte Cavallo è proprio di una piccola finestrella situata sulla facciata Nord.
Vita nel Rifugio Benigni ...è una giornata tiepida, il sole splende e la vista sulle montagne della Valtellina.
Sussia abbandono o rinascita. Sussia e' un' antica frazione sopra San Pellegrino Terme raggiungibile percorrendo un'ora di mulattiera.
Il Cervo patrimonio faunistico della nostra Valle Brembana.
Escursione al Monte Aga ci alziamo di buon ora, la nostra meta quest'oggi è il Monte Aga in alta Val Brembana.







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