Le Pietre parlano: Antica cultura litica dell'area Alpina
(con particolare riferimento alle Valli Bergamasche)


Eugenio Guglielmi

L'argomento è per me stimolante in quanto, nell'arco di un decennio, ho svolto delle ricerche nell'alta Valle Brembana dove ho cercato, anche a mezzo di una vasta documentazione fotografica, di ricostruire quello che doveva essere stato il tessuto sociale in uno degli ambienti montani più isolati ed immutati della cerchia alpina. E questo attraverso l'esame di pietre che, appunto, con la loro presenza e disposizione, ci possono parlare dell'uomo antico. Si tratta di manufatti litici che nascondono la grande anima e la dignità dell'uomo. Questi documenti, senza una precisa collocazione, avrebbero ben poco da dire ai nostri occhi di osservatori del territorio. Infatti generalmente il nostro sguardo spazia verso lontani orizzonti, dedicandosi alla extraterritorialità ed alla macrogeografia, ma sottovaluta i piccoli particolari che ci stanno vicini. Proprio per questo, anche nella nostra zona, edifici in apparenza semplici, ma che conservano in sé i segni di una architettura spontanea tipica di una cultura antica, vengono spesso trasformati, per adattamento alla modernità, in anonime casupole che, per tristezza di facciata e povertà di materiali, sono lo specchio di chi le abita e di chi le concepisce.

Lo studio dell'antica civiltà alpina su basi architettoniche è abbastanza recente. Le grandi civiltà agro-pastorali dei nostri rilievi montani sono per lo più sconosciute, a differenza di culture diverse dalla nostra ma ben definite, come quella celto-gallica o di quelle più antiche ancora, che vengono generalmente accomunate con la definizione forse semplicistica di "neolitiche". Da noi si riconosce in particolare la civiltà appenninica, definita da non molti anni, che risale a circa 4.000 anni fa e che sembra essere la prima forma di organizzazione che dà all'Italia una identità culturale omogenea. Il termine appenninico è dovuto al fatto che la prima fase stanziale è nota per i nostri rilievo tosco-emiliani, ma deve essere inteso con un significato geografico molto più ampio. E' dunque la manifestazione che anticipa l'avvento delle civiltà storiche che noi conosciamo, come ad esempio quella etrusca. Essa è stata soppiantata da quella villanoviana, che è subentrata da noi nell'età del ferro, interessando non solo la pianura padana e la Penisola ma anche la fascia prealpina. Si è sempre pensato che i livelli montano-alpini, ossia quelli intorno alle quote 1.700-2.000, non fossero da considerarsi validi per gli studi sulla antica presenza umana; forse solo perché nessuno aveva mai svolto ricerche abbastanza approfondite sull'argomento. Infatti in molte zone le intemperie ed in particolare l'accumulo periodico della neve hanno danneggiato le tracce della antica presenza umana, tanto da renderle irriconoscibili.

Questa presenza umana sulle Alpi è stata accertata, per il periodo preistorico e protostorico, solo negli ultimi decenni. Più nota e documentata è invece la presenza umana antica legata alle attività estrattive. E questo anche per le zone più isolate come è appunto l'alta Val Brembana . Queste attività si erano manifestate inizialmente con l'estrazione della cassiterite (per la produzione dello stagno), del piombo, del rame della calamina, fino al vetriolo ed alla siderite (da cui si estrae il ferro). Da una indagine che ho effettuato in queste zone ho potuto appurare che alcune di queste attività sono state perpetuate fino agli anni '20 o '30 del novecento. Si tratta di esempi culturali che devono essere riferiti alle maggiori espressioni dei popoli e non solo a manifestazioni di attività tribali strettamente locali, come nel caso di popolazioni celtiche (V e IV secolo a.C.) che hanno lasciato profonde tracce nella nostra zona, come è desumibile da numerosi toponimi come Gallavesa, corso d'acqua nella zona di Vercurago (nel territorio lecchese) che evoca assonanze con il nome di uno dei più famosi capi barbari, Belloveso. Lo stesso prefisso di Vercurago ci ricorda questi rapporti.

La presenza di popoli indoeuropei antichi, portatori di una nuova cultura, è stata comprovata nell'alta Val Seriana anche a seguito di una recente indagine che ho condotto con un gruppo di studenti universitari. Un approfondito esame dei rapporti proporzionali delle baite ha dimostrato che le piante delle costruzioni non si dimensionano al nostro sistema metrico decimale, ma sono riconducibili ad una diversa unità di misura che potrebbe essere identificata con il piede ed il pollice anglossassoni. Siamo stati profondamente colpiti da questo inquadramento di una architettura spontanea in schemi ben determinati che denota una origine culturale tutta diversa da quella mediterranea. Nel 1985 una mia segnalazione ha messo in moto una serie di ricerche ed osservazioni in una zona che era considerata "buia", ossia senza una presenza antica dell'uomo. Si trattava non di una scoperta ma di una rilettura di tracce antiche dell'attività umana: la presenza di massi cuppellati nella zona di Mezzoldo, in alta Valle Brembana. Vennero allora vagliate notizie che provenivano dalla tradizione locale secondo cui nell'alta Valle erano presenti insediamenti molto antichi, di cui restavano poche tracce. In alcuni punti addirittura fu l'alluvione recente a mettere in evidenza alcune strutture litiche, visibili soprattutto dall'alto. Furono rilevati toponimi che rimanevano solo nella memoria dei più anziani, come Kahes, Aràl e Kaschùl, di origine protostorica.

Per comprendere queste strutture e il modo di pensare delle antiche popolazioni dobbiamo riconoscere che oggi tutto cambia velocemente, mentre una volta il tempo e la mentalità umana evolvevano con una grande lentezza. Infatti la nostra cultura rurale, vecchia di 4.000 e più anni, in alcune zone alpine è giunta fino agli anni '50 del novecento senza particolari modifiche. Prima di essa era presenta la cultura litica, durata per un periodo ancora più lungo, che può essere fatta risalire addirittura a 350.000 anni fa (di cui però sulle Alpi non rimane traccia). L'uomo di quel lontano periodo, che gli antropologi hanno chiamato Homo erectus, organizzava già il proprio spazio e costruiva capanne con sostegni e spallette per rinforzare le pareti, proprio come è rilevabile nelle antiche strutture delle alte Valli Bergamasche. Ma dobbiamo arrivare a circa 10.000 anni fa per trovare l'uomo che, nel Vicino Oriente, raggiunge la cultura neolitica, caratterizzata dalla capacità di coltivare alcune piante per migliorare la sua nutrizione; la maggiore disponibilità di carboidrati ha consentito un sensibile aumento numerico della popolazione.

Ma una importante fase intermedia, nello sviluppo culturale umano, è quella dell'uomo di Neanderthal, nostro antenato che mostrava di conoscere culti particolari (come quello del cannibalismo rituale) ed anche tecniche relativamente avanzate, come quella della conservazione del fuoco e della brace mediante piccoli cerchi o corone di pietre, altro particolare che ritroviamo nelle nostre strutture antiche prealpine. Diverse di queste manifestazioni dell'antica cultura umana si sono travasate, nei loro aspetti esteriori, nella cultura dei pastori alpini. Un ‘altra caratteristica di questi nostri antichi popoli era quella della mancata conoscenza di elementi per la misurazione del tempo, sulla base di rilevamento di ombre o di moti di astri; sembra che nella loro organizzazione sociale disponessero solo di una sorta di orologio biologico, legato alle esigenze degli animali, che rappresentavano l'unica loro ricchezza. Ancora oggi, nelle alte valli, si usa il termine di "paghe"; la paga era la superficie necessaria per mantenere un bovino o un equino o due manze o 5/6 ovini per l'intera durata dell'affittanza dell'alpeggio. Dunque non una misurazione metrica del territorio, ma biologica, legata alla sopravvivenza tribale.

Di particolare interesse è anche la definizione dei percorsi, attraverso i pascoli, tracciati originariamente dagli animali domestici per intuito e poi, almeno per alcuni di essi, trasformati in abituali percorrenze umane. Sono particolari che solo un'attenta lettura del territorio consente di capire: una pietra può essere solo una pietra, oppure può rappresentare qualche cosa di più, in quanto legata all'ambiente abitato dall'uomo per lunghissimo tempo. Risalendo l'alta valle del Brembo - poco sotto il passo di S.Marco – mi è capitato di osservare delle pietre che sembravano disposte con un principio di razionalità; per cui mi sono rivolto ai vecchi pastori per cercare di sapere se questa particolare distribuzione rientrasse o meno nella mentalità e nella tradizione pastorale. Scoprii allora che quelle strutture, che mi erano appunto sembrate seguire degli schemi particolari, avevano dei nomi speciali: kàrek e bàrek, termini strettamente locali e non propri del dialetto bergamasco corrente. Seppi allora che "kàrek" definiva i mucchi di pietre disposti in vario modo nei pascoli, mentre "bàrek" era l'appellativo dei cerchi di pietre che definivano uno spazio adibito al contenimento delle mandrie nel periodo notturno.

Quindi in questa terminologia si è conservata la memoria di segni dell'antichissima presenza umana, che sulle aree alpine e prealpine si sono conservati solo in alcune sacche che non hanno ricevuto l'apporto di culture nuove, restando così immutate per tempi molto lunghi. I karek a mio parere non rappresentano solo accumuli fatti per ripulire il pascolo dalle pietre sparse, come potrebbe sembrare, ma avevano funzioni ben più importanti come quella di definire delle pertinenze territoriali, indicare o limitare percorrenze e forse potevan anche avere motivazioni propiziatorie, per la loro posizione reciproca. L'etimo conferma la loro provenienza ancestrale, che procede da un assestamento di assonanze celtiche del termine carabus, che ritroviamo nel latino medievale carabum (mucchio di pietre).

Più antica invece e l'origine del termine "barek" che deriva da una voce celtica che significa recinto per bestiame che a sua volta procede dalla radice bar, barra riparo, difesa (da cui per accostamento deriva il termine dialettale che significa montone, perché in questi recinti venivano ricoverate le greggi). Ritroviamo lo stesso suono nel termine catalano bar e in barri dell'alta Savoia che indicano luoghi di difficile accesso su montagne o speroni di roccia. Al medesimo etimo si ricollega il nostro Monte Barro vicino a Lecco, con la mitica città di Barra ricordata da Plinio, ed anche Bariano, paese della bassa bergamasca e Barriano, frazione di Missaglia. E' interessante ricordare che in Val Seriana esiste il termine di barighi che significa muri di sassi intesi sempre come perimetrazione. E' quindi di particolare interesse osservare che questi segni hanno sempre costituito un riferimento per l'uomo alpino e sono stati abbandonati solo da pochi anni con un conseguente deterioramento per il crollo dei muri e la crescita di erbe infestanti. Quindi una montagna viva, che l'uomo antico abitava perfettamente integrato nell'ambiente naturale. Vicino a questi segni ne troviamo altri che confermano quanto abbiamo detto; ad esempio la presenza di resti di ricoveri di pastori, che sono del tutto simili a quello costruito dall'Homo erectus 350.000 or sono. In questi casi si tratta di perimetri di pietre, chiamati kalèc, eretti spesso con il "sass lunghent", pietra untuosa, talcoso-micacea, scelta anche per l'escavazione di coppelle, che bene si presentava allo scopo in quanto non è geliva, ossia non si fessura per l'azione alternata del gelo e del disgelo. Questi recinti venivano coperti a mò di tenda, prima con pelli di animali cucite fra loro, poi con materiale tessile o addirittura con delle assi. Questa copertura veniva trasportata di mano in mano che la mandria si spostava sull'alpeggio e quindi serviva per tutti i kaléc di cui la malga era dotata. Anche di queste strutture restano poche tracce, risparmiate dalle aggressioni del tempo.






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