Lo Stambecco (prima parte)

di Flavio Galizzi

La sua storia Quella dello stambecco è una storia emblematica, ricca di spunti di insegnamento e di riflessione. La sua esistenza poteva concludersi tragicamente già agli inizi dell'800, quando era ormai scomparso da tutto l'arco alpino, non solo sui versanti italiani, ma anche su quelli austriaci, svizzeri e francesi. L'ultima popolazione, presente solo in Italia tra Piemonte e Val d'Aosta, ormai ridotta a pochissimi esemplari, pare non più di 100, veniva protetta da un regio decreto, e successivamente"gestita" con l'istituzione della Riserva reale di caccia del Gran Paradiso. La storia di questo bellissimo bovide, che con il camoscio è tra i più caratteristici simboli delle Alpi, ci insegna innanzitutto come la "non conoscenza" della vita degli animali, della loro consistenza, delle loro abitudini, delle loro necessità alimentari, climatiche e di "habitat", possono costituire un vero e proprio pericolo per la loro sopravvivenza. Sicuramente fu l'azione di caccia che decretò la sua quasi scomparsa sulle nostre montagne, ma certamente ancor più incise il fatto che nessuno immaginava che questa specie potesse realmente scomparire, in quanto tra la gente era normale ritenere che di tali animali, come di quasi tutte le specie alpine, ce ne fossero ovunque, e potersene cibare fosse una sorta di "dono" di cui poter disporre.

Un altro elemento che giocò un ruolo non secondario, fu la credenza popolare, da far risalire all'alto medioevo, delle proprietà curative che possedeva il suo sangue e tutte le parti del suo corpo. In una antica leggende si parla di un ossicino, situato nel suo cuore, dal potere taumaturgico, mentre nei libri di medicina popolare ogni suo organo, e perfino le sue feci, entravano a far parte di numerosi rimedi. Le conoscenze scientifiche di oggi hanno fatto piazza pulita di molte assurde credenze simili a queste, anche se per alcuni popoli, dove una cultura secolare attribuisce ancora proprietà terapeutiche a parti di animali rari che per la loro forza e potenza sono ritenuti possedere poteri miracolosi, alcune specie costituiscono motivo di commerci illeciti e di stermini insensati, come le tigri, i rinoceronti e molte altre.

Un secondo motivo di riflessione è legato al fatto che fu proprio un cacciatore, appunto il Re Vittorio Emanuele II°, a volerne la protezione, e in seguito, con la costituzione della Riserva reale di caccia, intendere la protezione come "gestione" della specie, che doveva essere sorvegliata, controllata, studiata e, perché no, cacciata, ovviamente con criteri scientifici in grado da non mettere mai a repentaglio la salute della popolazione, ma al contrario, per quanto potesse essere possibile all'uomo, favorirne l'espansione. E così fu. Oggi sulle Alpi lo stambecco è stato reintrodotto un po' dovunque. Non solamente nelle nostre regioni, ma anche in Austria, in Francia, in Svizzera, in Slovenia e in Germania, con pieno successo, tanto che in tutti gli altri stati confinanti ne è di nuovo stata consentita la caccia, per controllarne e gestirne meglio le popolazioni.

Gli stambecchi delle Orobie
Nelle nostre Orobie bergamasche non è accertato se ve ne siano mai stati, anche se è ipotizzabile che avrebbero potuto benissimo viverci, almeno sulle vette più alte, in quanto l'habitat risulta essere particolarmente idoneo alla loro esistenza, e ne è documentata una popolazione che nel medioevo popolava le montagne della Val Chiavenna e dei Grigioni. All'inizio degli anni ‘80 la Regione Lombardia, con la consulenza scientifica del Dipartimento di Biologia dell'Università di Milano, pensò alla possibilità di reintrodurre lo stambecco anche nel territorio delle Orobie, e diede l'incarico per uno studio preliminare sulla sua fattibilità. Gli studi che sono seguiti hanno individuato nel comprensorio alpino delle Orobie un habitat favorevole al suo insediamento, localizzato in due comparti distinti: il primo in alta Valle Seriana, ed un secondo nel gruppo del Pizzo dei tre Signori, interessando così anche le Province di Brescia, di Como e di Sondrio. Dal 1987 al 1989, in queste due aree, sono stati reintrodotti 88 esemplari, tutti provenienti dal Gran Paradiso, e il Progetto Stambecco ha avuto concretamente il via.

Considerato che l'indice di incremento medio annuo di questa specie si colloca intorno al 10 - 15%, la popolazione delle Orobie dovrebbe raggiungere nel 2007, a vent'anni dalla prima reintroduzione, così come ipotizzava il progetto, circa 1500 individui; una consistenza che garantirebbe, sotto ogni profilo, una notevole vitalità genetica e la capacità di rispondere selettivamente alle modificazione ambientali. Il progetto presenta però, a mio avviso, una grossa lacuna. Come si sa, non basta pensare a reintrodurre specie di interesse faunistico in un territorio, ma è ancor più importante seguirne poi l'evoluzione direttamente, con costanza e rigore scientifico. Tutto ciò non sembra essere stato fatto, se non sporadicamente, da parte degli organismi preposti a tale funzione. La Provincia non dispone assolutamente di personale sufficiente a tali scopi, basti pensare che, a fronte di numerosi ed onerosi nuovi compiti che gli ex guardiacaccia hanno dovuto assumere con il passaggio alle nuove funzioni di Corpo di Polizia Provinciale, non si è registrato, a tutt'oggi, alcun aumento di organico, e le guardie che svolgono un servizio di sorveglianza e monitoraggio nel Comprensorio Alpino Valle Brembana, che si estende per ben 50.000 ettari, sono solamente quattro. Si pensava forse, a suo tempo, che tali compiti sarebbero stati assunti dal Parco delle Orobie, ma anche tale organismo non è decollato, e all'orizzonte non v'è alcuna novità di rilievo.

Una soluzione sarebbe alla portata di tutti: affidare temporaneamente tali funzioni di controllo e di monitoraggio ai Comprensori Venatori Alpini, che già svolgono egregiamente tali compiti nei confronti delle specie cacciabili, così come la legge prevede. Allargare tali funzioni anche alle specie protette sarebbe una soluzione percorribile, così come si dovrebbe ipotizzare per altre specie a rischio, come la Pernice bianca, il Francolino di monte e il Gallo Cedrone. Ma per qualcuno vorrebbe forse dire una perdita di potere, che peraltro non esercita in alcun modo, e per altri assumere, anche di fronte all'opinione pubblica, una nuova veste, quella di protettore della fauna, che la cultura tradizionale non è ancora forse pronta ad accettare. Attendiamo che i tempi maturino, e con loro un nuovo modo di approccio ai patrimoni naturali delle nostre straordinarie montagne.





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