Una giornata da "cascio" in alpeggio

Correva l'anno 1953, i nostri alpeggi in alta Valle Brembana erano carichi di bestiame; l'annata si prospettava buona grazie all'ottima crescita di erba ed alla temperatura mite. L'alpe dove mi avevano collocato, era condotta da un alpeggiatore valtellinese che prendeva in custodia anche le vacche di alcuni piccoli allevatori della Valle Brembana; il nome dell'alpe è l'"Aga" e si trovava vicino ad un'importante ed antica via di comunicazione: la "Strada Priula". La sveglia del mattino era poco prima dell'alba; si dormiva su pagliericci imbottiti di foglie di granoturco; se non fosse stato per la giovane età, quando si dorme anche sui sassi, lascio a voi immaginare quanto fosse comoda quella sistemazione. Non ricordo se ci si svestiva o se si andava in branda vestiti e coprendosi solo con una rozza coperta; l'impatto con il fresco mattutino era comunque violento. Le vacche venivano munte a mano; il latte, depositato nei secchi di ferro o alluminio, era sorvegliato a vista dal cascio. Terminata la mungitura, la mandria formata da 90 mucche da latte e 30 vitelli, percorreva un breve tratto di pascolo e poi iniziava a mangiare. Il loro primo pasto era sorvegliato a vista con l'aiuto di cani; poi, quando il sole era già alto, a turno si andava a fare colazione, che consisteva in latte con polenta in una ciotola di alluminio. Non ricordo se il latte era caldo, ma ricordo molto bene il fumo che ristagnava in quella baita durante la cottura del latte per la sua trasformazione in formaggio.

Terminata la colazione si andava ancora a sorvegliare le vacche ed i vitelli che erano i più irrequieti; se il tempo era bello e non pioveva, la mattinata passava anche velocemente ed in modo piacevole; uniche distrazioni erano date dal cane con il quale si giocava e qualche passante occasionale che si stava recando alla "Cà San Marco". Si pranzava poi verso le 13/14, ma non insieme, quasi sempre soli e a turno, per avvicendarsi nella guardia del bestiame; i cibi erano sempre gli stessi: polenta, latte e formaggio, anche riso, mentre la carne non esisteva proprio. Gli uomini bevevano anche il vino nei "baslì"; la conversazione era ridotta a parlare solo di erba, di bestiame e di formaggio alla luce di candele e lucerne al carburo. L'alpeggio non veniva rinnovato e migliorato aggiustando le stalle, raccogliendo i sassi o migliorando le strade; ci si riduceva solo ed esclusivamente a sorvegliare le bestie ed a farle mangiare nei loro spostamenti; c'era quindi già in atto un degrado degli alpeggi. Una sera, stanco del solito tran tran ed all'insaputa di tutti, decido di recarmi alla "Cantoniera di San Marco"; la strada era breve ma non ricordavo di essermi mai recato da solo alla cantoniera prima di quella sera. Era buio ma la luna già si stava alzando dietro il Monte Cavallo; tutto era immobile nel caldo tepore dell'estate. Dovevo passare l'alpeggio "Ancogno", poi quello "Solivo" ed infine "La Colla" prima di arrivare alla meta, ma già pregustavo la mia serata; lungo il percorso solo qualche latrato dei cani mi ricollegava al mondo appena lasciato; già intravedevo le luci della famosa "Cà San Marco" ed il mio passo si affrettava in modo naturale.

Era consuetudine che i bergamini, i casari ed alcuni turisti di transito frequentassero la Cantoniera e, fra un calice e l'altro, si scambiavano opinioni, messaggi, pettegolezzi. La luce che rischiarava le finestre mi sembrava molto fioca mentre aprivo la porta d'ingresso lasciandomi alle spalle nel buio l'androne dove si trovava una copiosa fontana appena restaurata. Quella luce fioca poi si rivelò, con mio grande stupore, essere a gas e, nel suo chiarore lasciava molti angoli bui. Subito venni intercettato dal Cantoniere che ben conoscevo. "E tu cosa fai qui?" egli mi disse; "Sono venuto a trovarti" fu la mia risposta immediata; "Ma lo sa il Rinaldo?" "No". Nel frattempo avevo guadagnato un panca che correva lungo i muri perimetrali del locale; le salette erano due, divise da un banco sempre presidiato dal cantoniere. Gli avventori quella sera erano tutti mandriani bergamaschi e valtellinesi; essi discutevano mentre bevevano del buon vino; mi resi conto che anch'io dovevo ordinare qualcosa, ma non avevo neppure un soldo e tuttavia la cosa non mi preoccupò più di tanto. Ordinai allora un'aranciata e mi sentii subito dire: "la pagherai quando sarai grande"!!. Qualcuno aveva già capito la situazione.

Non rimasi molto tempo all'interno della cantoniera, ma fu sufficiente per decifrare tutto: l'interno del locale, gli avventori che vi si trovavano ed ascoltare i loro discorsi. Poi salutai ed uscii; la fontana, nel suo angolo buio era presente con il suo zampillìo canterino. La strada del ritorno era ben rischiarata dalla luna quasi piena; il silenzio era rotto da un suono lontano di campanacci assonnati; tutto era tranquillo; la mulattiera, pianeggiante sino alla "Colla" fu da me percorsa in un attimo; la vallata, immersa nel buio, si faceva scorgere solo in profondità, mentre le vette dei monti  si ergevano nitidamente in cielo. Fatti i primi passi in discesa, questo mondo calmo ed ovattato in una notte calda di luglio viene improvvisamente rotto da un abbaiare di cani, subito seguito da altri ed in breve diventa un coro in crescendo che sento avvicinarsi velocemente. Faccio subito due conti: se incomincio a correre posso arrivare velocemente alla baita che mi ospita, ma posso anche essere raggiunto e far fronte ai cani che stanziano nella mandria di "Ancogno" ai quali si erano uniti anche quelli della mandria della "Aga" sarebbe stata un'impresa impossibile. La mia unica via di fuga era un palo del telefono che affiancava l'elettrodotto dell'A.E.M.. In un baleno fui in cima al palo, mentre sotto l' abbaiare continuo di quei cani aveva svegliato quella serata tranquilla e squarciato quell'ovattato silenzio.

Dall'alto del palo riconobbi alcuni cani ma, nonostante li chiamassi per nome, la squadra non si disuniva nella caccia; la situazione non si sbloccava ed i cani, pur smettendo di abbaiare, non si spostavano dal palo. Facevano rientro dalla cantoniera il casaro ed un mandriano dell'Alpe "Ancogno" i quali, forse sentendo da lontano l'abbaiare dei cani,  li chiamarono con un fischio semplice ma deciso e così l'assedio ebbe fine. Non venni scorto sul palo poiché la loro baita era in un'altra direzione ma rimasi ancora un po' in  quella posizione scomoda ma provvidenziale; il silenzio riprese il sopravvento; la notte continuò tranquilla; le mandrie dislocate nel grande anfiteatro naturale dormivano ruminando ed allora scesi. Percorsi in un attimo il breve tratto di strada che mi mancava per raggiungere la baita e con un balzo presi posto  nel mio pagliericcio. Nessuno forse si era accorto della mia assenza ed il sonno ebbe in breve il sopravvento.

Giuseppe Salvini





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