Dominique Vivant Denon
L'avventuroso viaggio lungo la Strada Priula (prima parte)
di un giacobino in piena Rivoluzione Francese
di Tarcisio Bottani

Agli inizi di novembre del 1793, Dominique Vivant Denon, un intellettuale francese di idee rivoluzionarie, percorse la Strada Priula , da Bergamo a Morbegno, valicando non senza difficoltà il Passo di San Marco, abbondantemente coperto di neve. Il Denon proveniva da Venezia, da dove era dovuto partire perché non gradito al governo lagunare per le sue idee giacobine. Dopo aver soggiornato a Bergamo dal 2 al 5 novembre, percorse in tre giorni (6-8 novembre) La Priula fino a Morbegno, quindi raggiunse la Svizzera, da dove avrebbe poi proseguito per la Francia. Appena giunto a Morbegno, il viaggiatore inviò una lettera all'amica veneziana Isabella Teotocchi Albrizzi, nella quale traccia con straordinaria efficacia e ricchezza di descrizione un resoconto del suo avventuroso viaggio lungo La Priula, toccando aspetti assai curiosi e interessanti.

Si tratta di un documento di eccezionale importanza ai fini della ricostruzione della realtà sociale e ambientale della Valle Brembana di fine Settecento.

La lettera, conservata nella Biblioteca Comunale di Forlì, è stata pubblicata nel maggio dello scorso anno nel contesto di una mostra sull'itinerario del Dunant allestita a Bergamo per iniziativa della Biblioteca Civia "A. Mai" e dell'Assessorato alla Cultura del Comune. Curatori dell'esposizione, Piervaleriano Angelici, Giuseppe Pesenti, Franco Prida e Paola Palermo. Il testo della lettera che qui pubblichiamo, è stato tradotto dal francese da Paola Palermo e Giulio Orazio Bravi, direttore della "Mai", che ringraziamo per la gentile concessione.

DOMINIQUE VIVANT DENON A ISABELLA TEOTOCCHI ALBRIZZI


Morbegno, 9 novembre 1793

Inizierò col farti un resoconto del mio viaggio attraverso la montagna, affinché Jonti se ne disgusti se  malauguratamente si dovesse trovare nel caso d'intraprenderlo.

Partii da Bergamo mercoledì 6 alle 18.30 con l'organizzatore del mio viaggio a cui avevo pagato in anticipo 140 lire, tutte le spese comprese, affinché fossi condotto fino a Morbegno. Era a cavallo come me, mentre colui che doveva farmi da guida e un altro uomo erano a piedi. A qualche miglio da Bergamo entrammo nella vallata del fiume Brembo, terra ricca, abbondante, popolata, ed edificata in modo che i villaggi sono più lunghi da attraversare dello spazio che li separa. Il Brembo è un fiume di acqua limpida; oltre a servire per l'irrigazione, è utile alla fluitazione del legname e, grazie alle rive assai scoscese, non può nuocere straripando. A Ventulosa, a 5 miglia da Bergamo, la vallata si restringe e il fiume a Botta è già molto rapido; due miglia oltre finisce la strada per la quale a rigore possono transitare le carrozze. A Sedrina, due miglia da Botta, si passa il fiume su un ponte gettato su due spuntoni di roccia, da dove si ha una visione molto pittoresca.


La Strada Priula verso il Passo San Marco


Usciti da Sedrina, si scende in una graziosa vallata dove il Brembo scorre più dolcemente. Questa piccola gola di un miglio e mezzo si conclude molto piacevolmente con il borgo di Zogno. Incontrai nella locanda, dove facemmo riposare i cavalli e i due che ci accompagnavano a piedi, un giovane prete che aveva viaggiato e che era molto al corrente delle faccende del tempo. Appena seppe che ero francese, mi parlò di quelle che erano state le sue conoscenze; si scoprì che avevamo un amico comune. Allora mi offrì la sua casa, ciò che possedeva, tutto il borgo. L'incontro con me gli riportò alla memoria tutti i bei momenti che aveva goduto in Francia. Dopo un'ora trascorsa insieme, mi abbracciò. Lo lasciai assai scontento di restare in un paese pur molto bello e da dove per dì più era la persona più importante. Attraversammo i due villaggi di Tre Fontane e Tiolo, e risalendo ancora lungo il Brembo arrivammo sul far della notte a San Pellegrino Terme , paese assai ben costruito.

Ci restavano più di 3 miglia da percorrere, la valle si restringeva così come la strada, era notte fonda e un po' di vento che veniva dalle alture mi penetrava fino al cuore. Pensavo che fosse troppo presto per lamentarmi, mi azzardai comunque a dire che faceva "piuttosto fresco". "Che fresco!", mi disse il mio accompagnatore, "per Dio non posso più parlar!". Non si poteva camminare a piedi né affrettare i cavalli a causa dell'oscurità e della cattiva strada; battendo i denti, con grande nostra soddisfazione, arrivammo a San Giovanni Bianco, dove il mio accompagnatore era l'oste, il mercante, la persona più importante. Andammo dritti in cucina, dove mi presentò tutta la famiglia. La signora Margot (la situazione mi sembrò una ripetizione senza costumi della scena del mugnaio nell'Enrico IV), la signora Margot dunque mi disse:- "Mangerete poco di buono, signore, anche se faremo del nostro meglio". Mi resi conto, invece, che tutto era preparato in modo assai confortevole. Dopo esserci scaldati per una mezz'ora, il padrone di casa mi fece entrare in una sala veramente bella, dipinta a nuovo, dove vicino a una bel focolare c'era una tavola con due coperti, alla quale poco dopo fu servita una delle migliori e delicate cene che si possano desiderare: pesce, selvaggina squisita, buona frutta, eccellente formaggio, vino di Cipro come dessert. Il rito della tavola durò un'ora; fui poi condotto in una piccola graziosa camera in cui c'era un gran bel letto sul quale stava uno scaldaletto ben caldo. Il mattino mi servirono della cioccolata e del liquore. Tu trovi tutto così fine e vuoi viaggiare, ma aspetta un attimo prima di metterti in cammino. Io persi a San Giovanni Bianco la mia magnificenza. I bagagli, che erano stati inviati a San Giovanni Bianco il giorno prima, furono caricati per metà sulle spalle di un contadino del posto e per l'altra metà su quelle della mia guida. Alla partenza montai ancora a cavallo, ma lo stesso vento della sera prima mi convinse che si andava meglio a piedi. La valle si faceva sempre più selvaggia, le case più rare e più povere, il piccolo fiume non era più che un torrente che precipitava di roccia in roccia, le cui rive erano ingombre di tronchi di abete spinti fin là dalle grandi piene di primavera, e che aspettavano le piene della primavera successiva per continuare il loro tragitto.


Alpe Gambetta dalla Strada Priula al Passo San Marco


Dopo tre ore di cammino arrivammo a Lenna, villaggio di fucine e abitato da fabbri neri come il carbone che vi si consuma. Ci riposammo il tempo necessario per ferrare il cavallo con ramponi e per bere un pessimo brodo. Lasciammo a Lenna la valle del Brembo per seguire il torrente d'Acqua Negra. Dopo San Martino e la Piazza, ci trovammo tra la neve e sebbene ci fosse un sole splendido, non ne godemmo i raggi fino a pomeriggio inoltrato. Il torrente non era più che un ruscello, i paesi non erano che tre o quattro misere abitazioni. Arrivati alle due a Mezzoldo , entrammo nella locanda: credetti di essere giunto in una capanna di Lapponi. Un raggio di sole entrava da un abbaino e attraversava una spessa colonna di fumo che usciva dall'abbaino e dalla porta, le due sole aperture di questo piccolo tugurio. Alla luce del focolare, acceso per terra al centro del rifugio, intravidi alcune persone di colorito scuro le quali, appena ci videro entrare, appesero un grande pentolone a una catena di ferro che pendeva dalla volta sul fuoco. Una donna, che mi disse di avere cinquant'anni, aveva l'aspetto di una novantenne. Quando l'acqua bollì vi venne gettato del riso con dei pezzi di carne bovina salata che sembravano vecchie suole, tanto da averne un po' preso il sapore. Ci fu servito tutto ciò nella sala da pranzo che era più fredda e non meno nera della cucina. Un po' di formaggio e qualche noce furono il nostro dessert prima di rimetterci in viaggio.

Lasciammo in fretta i coltivi e salimmo attraverso foreste di abeti, per le quali i boscaioli facevano rotolare i tronchi dalla sommità fino in fondo ai valloni, con un fracasso e una distruzione orrendi. Presto superammo le montagne boscose e ci ritrovammo circondati solo dalla neve; non avevamo che spuntoni di roccia a indicarci la strada. La neve, sulla quale si era formata una specie di crosta ghiacciata, pareva in un primo momento reggerci, ma subito dopo cedeva sotto i piedi tanto da sommergerci fino alla cintura. La mia guida mi tirava fuori di lì, altre volte ero io a farlo, e tutti e due andavamo a soccorrere il povero cavallo che soffriva e faticava con un coraggio, una pazienza e un'intelligenza ammirevoli. Verso l'ultima ora del giorno, arrivammo ad una baita fatiscente chiamata Ancogno, che in altre parti usurebbe come stalla. Venimmo a sapere, che vi si trovava una famiglia alla quale la Repubblica di Venezia dava 200 scudi con l'obbligo di mantenere quattro buoi necessari a tenere aperto il Passo e a soccorrere i viandanti in caso di pericolo. E' da duecento anni che questa famiglia si sacrifica a un inverno eterno. Tuttavia lungo il percorso noi non avevamo incontrato nessuno, e se per caso un taleche spaccava legna sull'uscio non ci avesse fermati, noi saremmo andati a cercarli fino alla Casa San Marco, posta a un miglio e mezzo più sopra, e l'avremmo trovata deserta. Al pensiero che bisognava sostare in quella baita dalle cinque di sera fino alle otto del giorno seguente, rabbrividii. Stesso fumo come a Mezzoldo, una dozzina di persone intorno al fuoco senza che fosse possibile distinguere che si aveva di fronte. La fiamma d'abete e due lanterne non facevano che una luce troppo fioca che non ci lasciava scoprire i muri dello stretto luogo in cui eravamo.

Sentendomi soffocare, con gli occhi in lacrime e la gola irritata dal fumo, feci per aprire la porta per respirare un poco, ma un'aria pungente mi rimandò al focolare. Vi era là una donna la cui testa poggiava su un solo gozzo della grossezza delle due tette di Madame Gambara. Malgrado il modo di vivere, queste persone sono oneste, gentili e di buona conversazione. Uno di loro era stato sei anni a Venezia ed era ritornato ad Ancogno. A questo caso veramente si può applicare il verso di Tancredi "A tutti i cuori ben nati la patria è cara!". La cena fu come quella di Mezzoldo. Come erano lontane le delicatezze asiatiche di San Giovanni Bianco! Per entrare nel locale che chiameremo camera da letto, bisognò aspettare che il fuoco si fosse spento, perché il fumo che vi entrava non si era poi in grado di farlo uscire; bisognava, dunque, attendere che il fuoco si estinguesse.







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